gli altri social network si apprestano a divenire degli sterminati camposanti virtuali, mentre ancora non è stata approntata alcuna regolamentazione uniforme e, tutto sommato, nemmeno un ampio discorso culturale.
In uno dei non numerosi studi dedicati alla questione si nota come la parola death (morte) è stata la più aggiornata di Wikipedia nel corso del 2016 (Giovanni Ziccardi, Il Libro digitale dei morti – memoria, lutto eternità e oblio nell’era dei social network, Utet, Torino, 2016, p. 12). La notizia non deve sorprendere: se il cyberspazio è uno dei luoghi principali dove, oggi, si compie la vita, è inevitabile che vi si incontri anche la morte.
Alcuni social network già da qualche anno riconoscono un’ampia varietà di soluzioni: dalla facoltà, per gli utenti, di predisporre in vita una sorta di testamento per definire le sorti delle identità digitali (magari nominando un ‘contatto-erede’ con funzioni di reputation manager), alla possibilità, per i parenti o gli amici, di chiedere la cancellazione dell’identità digitale dopo la morte di un soggetto. Si può persino domandare che un profilo divenga ‘commemorativo’ (Huffington lo ricordava già nel 2013): a partire da questo momento solo la persona che è stata designata in vita come ‘contatto-erede’ potrà avervi accesso, ma la gestione sarà limitata ad alcune funzioni, come – nel caso di Facebook – accettare nuove amicizie, pubblicare un post o aggiornare (sic!) la fotografia del de cuius.
In nessun caso, invece, si avrà la possibilità di accedere ai contenuti digitali prodotti in vita. La ragione di una simile cautela è facilmente intuibile: benché virtuali, le identità digitali possono contenere un ampio novero di informazioni riservate, dai conti on-line alle corrispondenze intime, dalle tracce relative ai siti frequentati a quelle relative ai luoghi dove ci si è recati per davvero (non bisogna dimenticare che la geo-localizzazione è uno straordinario strumento di sorveglianza di massa).
Le informazioni accumulate nella vita digitale sono, in fondo, dei veri patrimoni e, come tali, risultano composti in vari cespiti, alcuni dei quali economicamente rilevanti. Si pensi a uno scrittore di successo che lasci degli inediti in qualche spazio virtuale (social network o account di posta elettronica), oppure a un melomane che abbia accumulato una ricca collezione di opere in formato digitale. Se il primo non avrà provveduto a trasmettere le password di accesso non sarà possibile recuperare le ‘sudate carte’. Quanto al secondo, le condizioni contrattuali che sottoscriviamo nel momento in cui acquistiamo un brano su iTunes non prevedono – ad oggi – la possibilità di trasferire i beni digitali.
Come è comprensibile intuire, l’insieme di tali condizioni pone innumerevoli questioni: quando cessa di esistere un dato? come si fa a preservarlo per le future generazioni? è possibile, dopo la sua eliminazione, riportarlo alla vita?
La più nota delle ‘assi di tensione’ intorno alla quale gravitano tali problematiche è senza dubbio quella sicurezza versus libertà. Questo è apparso particolarmente chiaro quando, dopo la strage del 2 dicembre 2015, a San Bernardino, in California, la FBI ha chiesto ad Apple – che si è rifiutata – di consentire l’accesso ai dati contenuti nel iPhone 5 di uno degli attentatori deceduti in seguito agli scontri. Più specificamente quello che è interessante osservare è che ciò che veniva richiesto all’azienda di Cupertino non era un accesso una tantum (come in numerosi altri casi, riguardanti – ad esempio – militari statunitensi deceduti lontano da casa), quanto la revisione dell’intero sistema operativo, dal momento che la cifratura sviluppata a partire dal 2014 non permetteva, di fatto, alcun accesso ai dati.
A ben guardare, però, il problema va oltre quello dialettico libertà versus controllo globale, e investe il tema più ampio della memoria digitale, divenuta, almeno potenzialmente, eterna.
Infatti, al netto dei rischi derivanti dall’obsolescenza dei supporti tecnologici, tutto ciò che viene immesso in rete è registrato e replicato un numero indefinito di volte. Basta una semplice consultazione di Wayback machine per rendersene conto: la funzione permette di accedere ad un archivio di 306 miliardi di pagine web dalle origini di Internet sino al 30 ottobre 2017.
Premesse tali considerazioni appare ingenuo ritenere che un determinato contenuto possa essere definitivamente ‘eliminato’ dal cyberspazio, e non è un caso che la giurisprudenza più attenta si sia orientata nel diverso senso della cd. ‘de-indicizzazione’: l’obbiettivo non è più la cancellazione del dato ma, il relativo occultamento nei risultati dei principali motori di ricerca (come nel caso Google Spain deciso dalla Corte di Giustizia di Lussemburgo il 13 maggio 2014).
Sulla media-lunga distanza, dunque, la questione è come conciliare questa pretesa di eternità digitale con la morte fisica: riusciamo davvero a immaginare un mondo virtuale sovrappopolato di persone decedute, con le quali sarà possibile interloquire come se si trattasse di persone reali?
L’orizzonte delineato da simili questioni è più prossimo di quanto non si creda: Eterni.me è un sito che propone la costruzione di una personalità digitale costruita attraverso l’assemblaggio di post, tweet, foto ecc. ma, soprattutto, in grado di sopravviverci. Lo slogan intimorisce: What if You could live on forever as a digital avatar? (‘cosa ne pensi di vivere per sempre come un avatar digitale?’).
* Screenshot dal sito eterni.mi (30 ottobre 2017). La didascalia grande recita: Diventa virtualmente immortale. E quella piccola, sullo schermo del computer: Qual è la prima cosa che ricordi della tua vita?
Altri siti si accontentano di produrre un QR code da apporre alla tomba così che, con una semplice inquadratura del telefonino, si possa accedere a un contenuto multimediale che racconta la vita del defunto (cloudmemorials); altri ancora si spingono più in là: la sezione dedicata alla cyber-eternità di etern9 promuove degli avatar di defunti programmati per interloquire con amici e parenti elaborando le risposte sulle base delle informazioni accumulate in vita.
Risulta chiaro che il virtuale sta trasformando la relazione con la morte, che da privata torna a essere pubblica. Ci sono siti nei quali si postano fotografie dei funerali, cimiteri di identità digitali, cremazioni in streaming.
Non basta arroccarsi in un rifiuto del discorso, occorre cercare di capire. Come spiega nel proprio sito Stacey Pitsillides, una ricercatrice specializzata in Digital Death, una volta si tramandavano gli oggetti e le fotografie che si trovavano a casa delle persone decedute, oggi le ‘case’ sono anche i luoghi dove abitiamo le nostre esistenze virtuali e questo ha un impatto enorme sui risvolti economici, giuridici e sociali della morte. Quale sarà, per dire, il valore (affettivo!) di questo blog, tra cento anni? chi ne possiederà i diritti? chi potrà decidere di eliminarlo per tutelare la mia reputazione digitale se i problemi in esso evocati si rivelassero del tutto mal riposti?
La domanda interessa per lo più le generazioni più giovani. Come si osserva in una sezione del sito del Consiglio Nazionale del Notariato Italiano dedicata al tema dell’identità e della eredità digitale: “un ventenne di oggi acquisterà, nell’arco della sua vita, libri e musica e film per lo più in formato digitale. I suoi figli avranno i suoi libri e la sua musica, così come noi abbiamo libri e dischi dei nostri genitori? È oggi comune intrattenere rapporti bancari esclusivamente via Rete: in caso di scomparsa improvvisa, gli eredi, se non hanno accesso alla posta elettronica del defunto, potrebbero ignorare del tutto l’esistenza del conto. Casi simili cominciano a fare capolino negli studi dei notai italiani, ed hanno una valenza non solo patrimoniale, ma anche umana e di costume».
Nuovi riti prendono forma intorno a nuove piazze (virtuali). Alcuni di essi violano tabù e ci sembrano intollerabili, ma altri possono assolvere funzioni importanti. Si pensi al valore di un funerale in streaming per una comunità colpita da un esodo forzato. Se gestite con attenzione (ad esempio con password di accesso e altre misure in grado di tutelarne la sacralità) simili rappresentazioni possono tradursi in risorse.
In passato, a ben pensarci, era accaduto per la fotografia. Nell’Inghilterra vittoriana si diffuse la moda degli scatti post mortem: erano più economici dei quadri, e sembrò un modo dignitoso per celebrare le dipartite. Io stesso, quando ho visitato il Museo etnografico di Roseto Capo Spulico (confesso un debole per i Musei minori) sono rimasto rapito da alcune vecchie fotografie che inscenavano un dialogo per immagini tra quanti, nell’ottocento, erano salpati alla volta del Nuovo Mondo e quanti erano rimasti: i primi, più giovani, annunciavano le nascite con delle fotografie con al centro il pargolo; i secondi, più anziani, le morti, con uno scatto speculare in cui il deceduto era sostenuto in piedi e i vivi intorno seduti in semicerchio.
In conclusione, io proprio non saprei se l’esigenza di significare la morte, che è di tutte le civiltà e religioni, possa trovare nella rete uno spazio sufficientemente profondo. C’è sempre il pericolo che l’eternizzazione di un ricordo digitale possa equivalere a simulare una presenza reale, e quindi rallentare, se non arrestare, il lavoro del lutto, che è poi il tempo in cui la morte preme per essere accettata nella vita (e viceversa).
In un articolo dedicato ai problemi filosofici posti dalla morte digitale (Davide Sisto, “Digital Death: come si narra la morte con l’avvento del web”, in Trópos, 2016, p. 30), si ricorre ad una metafora dello psichiatra Eugéne Minkowski. È una bella immagine e mi piace riportarla in conclusione: «La morte, allora, sta alla vita come il sipario allo spettacolo teatrale: allo stesso modo in cui è il sipario, una volta calato, a far capire che lo spettacolo teatrale è finito, dando la possibilità allo spettatore di elaborare un’idea definitiva dell’intera rappresentazione e quindi di tutti gli atti che si sono susseguiti l’uno dopo l’altro, la morte è ciò che permette di ricostruire la trama di una vita, delineando precisamente i contorni della biografia personale».
In una famosa missiva del III sec. a. C. – Epistola a Meneceo, meglio nota come Lettera sulla felicità – il filosofo greco Epicuro risolveva la questione in poche righe: "quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte noi non siamo più". Le due, insomma, non si toccavano, né era consigliabile temere la morte in vita, perché di quest'ultima, la prima, era alleata: "non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell'immortalità".
Sul tema 'della morte' – ho il cognome giusto per affrontarlo – molto è cambiato negli ultimi duemilatrecento anni: alcuni mutamenti, però, sono in corso proprio oggi e sorprende quanto poco ci si ragioni intorno.
Si consideri, ad esempio, Facebook: il maggiore dei social network ha da poco (luglio 2017) raggiunto due miliardi di utenti. Il dato è impressionante, soprattutto se si considera che la cifra si riferisce ai 'profili attivi', e cioè a quanti nel mese precedente hanno utilizzato la piattaforma.
Cosa accadrà a tutti questi profili digitali – oramai autentiche identità – una volta che i corrispettivi autori non ci saranno più? Secondo alcune stime tra il 2065 e il 2095 avverrà il sorpasso: il mondo dei morti (digitali) sarà più affollato di quello dei vivi (sempre digitali). Facebook e gli altri social network si apprestano a divenire degli sterminati camposanti virtuali, mentre ancora non è stata approntata alcuna regolamentazione uniforme e, tutto sommato, nemmeno un ampio discorso culturale.
In uno dei non numerosi studi dedicati alla questione si nota come la parola death (morte) è stata la più aggiornata di Wikipedia nel corso del 2016 (Giovanni Ziccardi, Il Libro digitale dei morti – memoria, lutto eternità e oblio nell'era dei social network, Utet, Torino, 2016, p. 12). La notizia non deve sorprendere: se il cyberspazio è uno dei luoghi principali dove, oggi, si compie la vita, è inevitabile che vi si incontri anche la morte.
Alcuni social network già da qualche anno riconoscono un'ampia varietà di soluzioni: dalla facoltà, per gli utenti, di predisporre in vita una sorta di testamento per definire le sorti delle identità digitali (magari nominando un 'contatto-erede' con funzioni di reputation manager), alla possibilità, per i parenti o gli amici, di chiedere la cancellazione dell'identità digitale dopo la morte di un soggetto. Si può persino domandare che un profilo divenga 'commemorativo' (Huffington lo ricordava già nel 2013): a partire da questo momento solo la persona che è stata designata in vita come 'contatto-erede' potrà avervi accesso, ma la gestione sarà limitata ad alcune funzioni, come – nel caso di Facebook – accettare nuove amicizie, pubblicare un post o aggiornare (sic!) la fotografia del de cuius.
In nessun caso, invece, si avrà la possibilità di accedere ai contenuti digitali prodotti in vita. La ragione di una simile cautela è facilmente intuibile: benché virtuali, le identità digitali possono contenere un ampio novero di informazioni riservate, dai conti on-line alle corrispondenze intime, dalle tracce relative ai siti frequentati a quelle relative ai luoghi dove ci si è recati per davvero (non bisogna dimenticare che la geo-localizzazione è uno straordinario strumento di sorveglianza di massa).
Le informazioni accumulate nella vita digitale sono, in fondo, dei veri patrimoni e, come tali, risultano composti in vari cespiti, alcuni dei quali economicamente rilevanti. Si pensi a uno scrittore di successo che lasci degli inediti in qualche spazio virtuale (social network o account di posta elettronica), oppure a un melomane che abbia accumulato una ricca collezione di opere in formato digitale. Se il primo non avrà provveduto a trasmettere le password di accesso non sarà possibile recuperare le 'sudate carte'. Quanto al secondo, le condizioni contrattuali che sottoscriviamo nel momento in cui acquistiamo un brano su iTunes non prevedono – ad oggi – la possibilità di trasferire i beni digitali.
Come è comprensibile intuire, l'insieme di tali condizioni pone innumerevoli questioni: quando cessa di esistere un dato? come si fa a preservarlo per le future generazioni? è possibile, dopo la sua eliminazione, riportarlo alla vita?
La più nota delle 'assi di tensione' intorno alla quale gravitano tali problematiche è senza dubbio quella sicurezza versus libertà. Questo è apparso particolarmente chiaro quando, dopo la strage del 2 dicembre 2015, a San Bernardino, in California, la FBI ha chiesto ad Apple – che si è rifiutata – di consentire l'accesso ai dati contenuti nel iPhone 5 di uno degli attentatori deceduti in seguito agli scontri. Più specificamente quello che è interessante osservare è che ciò che veniva richiesto all'azienda di Cupertino non era un accesso una tantum (come in numerosi altri casi, riguardanti – ad esempio – militari statunitensi deceduti lontano da casa), quanto la revisione dell'intero sistema operativo, dal momento che la cifratura sviluppata a partire dal 2014 non permetteva, di fatto, alcun accesso ai dati.
A ben guardare, però, il problema va oltre quello dialettico libertà versus controllo globale, e investe il tema più ampio della memoria digitale, divenuta, almeno potenzialmente, eterna.
Infatti, al netto dei rischi derivanti dall'obsolescenza dei supporti tecnologici, tutto ciò che viene immesso in rete è registrato e replicato un numero indefinito di volte. Basta una semplice consultazione di Wayback machine per rendersene conto: la funzione permette di accedere ad un archivio di 306 miliardi di pagine web dalle origini di Internet sino al 30 ottobre 2017.
Premesse tali considerazioni appare ingenuo ritenere che un determinato contenuto possa essere definitivamente 'eliminato' dal cyberspazio, e non è un caso che la giurisprudenza più attenta si sia orientata nel diverso senso della cd. 'de-indicizzazione': l'obbiettivo non è più la cancellazione del dato ma, il relativo occultamento nei risultati dei principali motori di ricerca (come nel caso Google Spain deciso dalla Corte di Giustizia di Lussemburgo il 13 maggio 2014).
Sulla media-lunga distanza, dunque, la questione è come conciliare questa pretesa di eternità digitale con la morte fisica: riusciamo davvero a immaginare un mondo virtuale sovrappopolato di persone decedute, con le quali sarà possibile interloquire come se si trattasse di persone reali?
L'orizzonte delineato da simili questioni è più prossimo di quanto non si creda: Eterni.me è un sito che propone la costruzione di una personalità digitale costruita attraverso l'assemblaggio di post, tweet, foto ecc. ma, soprattutto, in grado di sopravviverci. Lo slogan intimorisce: What if You could live on forever as a digital avatar? ('cosa ne pensi di vivere per sempre come un avatar digitale?').
* Screenshot dal sito eterni.mi (30 ottobre 2017). La didascalia grande recita: Diventa virtualmente immortale. E quella piccola, sullo schermo del computer: Qual è la prima cosa che ricordi della tua vita?
Altri siti si accontentano di produrre un QR code da apporre alla tomba così che, con una semplice inquadratura del telefonino, si possa accedere a un contenuto multimediale che racconta la vita del defunto (cloudmemorials); altri ancora si spingono più in là: la sezione dedicata alla cyber-eternità di etern9 promuove degli avatar di defunti programmati per interloquire con amici e parenti elaborando le risposte sulle base delle informazioni accumulate in vita.
Risulta chiaro che il virtuale sta trasformando la relazione con la morte, che da privata torna a essere pubblica. Ci sono siti nei quali si postano fotografie dei funerali, cimiteri di identità digitali, cremazioni in streaming.
Non basta arroccarsi in un rifiuto del discorso, occorre cercare di capire. Come spiega nel proprio sito Stacey Pitsillides, una ricercatrice specializzata in Digital Death, una volta si tramandavano gli oggetti e le fotografie che si trovavano a casa delle persone decedute, oggi le 'case' sono anche i luoghi dove abitiamo le nostre esistenze virtuali e questo ha un impatto enorme sui risvolti economici, giuridici e sociali della morte. Quale sarà, per dire, il valore (affettivo!) di questo blog, tra cento anni? chi ne possiederà i diritti? chi potrà decidere di eliminarlo per tutelare la mia reputazione digitale se i problemi in esso evocati si rivelassero del tutto mal riposti?
La domanda interessa per lo più le generazioni più giovani. Come si osserva in una sezione del sito del Consiglio Nazionale del Notariato Italiano dedicata al tema dell'identità e della eredità digitale: "un ventenne di oggi acquisterà, nell'arco della sua vita, libri e musica e film per lo più in formato digitale. I suoi figli avranno i suoi libri e la sua musica, così come noi abbiamo libri e dischi dei nostri genitori? È oggi comune intrattenere rapporti bancari esclusivamente via Rete: in caso di scomparsa improvvisa, gli eredi, se non hanno accesso alla posta elettronica del defunto, potrebbero ignorare del tutto l'esistenza del conto. Casi simili cominciano a fare capolino negli studi dei notai italiani, ed hanno una valenza non solo patrimoniale, ma anche umana e di costume».
Nuovi riti prendono forma intorno a nuove piazze (virtuali). Alcuni di essi violano tabù e ci sembrano intollerabili, ma altri possono assolvere funzioni importanti. Si pensi al valore di un funerale in streaming per una comunità colpita da un esodo forzato. Se gestite con attenzione (ad esempio con password di accesso e altre misure in grado di tutelarne la sacralità) simili rappresentazioni possono tradursi in risorse.
In passato, a ben pensarci, era accaduto per la fotografia. Nell'Inghilterra vittoriana si diffuse la moda degli scatti post mortem: erano più economici dei quadri, e sembrò un modo dignitoso per celebrare le dipartite. Io stesso, quando ho visitato il Museo etnografico di Roseto Capo Spulico (confesso un debole per i Musei minori) sono rimasto rapito da alcune vecchie fotografie che inscenavano un dialogo per immagini tra quanti, nell'ottocento, erano salpati alla volta del Nuovo Mondo e quanti erano rimasti: i primi, più giovani, annunciavano le nascite con delle fotografie con al centro il pargolo; i secondi, più anziani, le morti, con uno scatto speculare in cui il deceduto era sostenuto in piedi e i vivi intorno seduti in semicerchio.
In conclusione, io proprio non saprei se l'esigenza di significare la morte, che è di tutte le civiltà e religioni, possa trovare nella rete uno spazio sufficientemente profondo. C'è sempre il pericolo che l'eternizzazione di un ricordo digitale possa equivalere a simulare una presenza reale, e quindi rallentare, se non arrestare, il lavoro del lutto, che è poi il tempo in cui la morte preme per essere accettata nella vita (e viceversa).
In un articolo dedicato ai problemi filosofici posti dalla morte digitale (Davide Sisto, "Digital Death: come si narra la morte con l'avvento del web", in Trópos, 2016, p. 30), si ricorre ad una metafora dello psichiatra Eugéne Minkowski. È una bella immagine e mi piace riportarla in conclusione: «La morte, allora, sta alla vita come il sipario allo spettacolo teatrale: allo stesso modo in cui è il sipario, una volta calato, a far capire che lo spettacolo teatrale è finito, dando la possibilità allo spettatore di elaborare un'idea definitiva dell'intera rappresentazione e quindi di tutti gli atti che si sono susseguiti l'uno dopo l'altro, la morte è ciò che permette di ricostruire la trama di una vita, delineando precisamente i contorni della biografia personale».